Un tempo i briganti resistevano ai piemontesi con assalti, agguati, conflitti che li esponevano al rischio della visibilità, oggi di quella resistenza resta una forza tenace, spesso invisibile agli occhi dei più, vissuta in modo integrale da chi qui è nato ed è vissuto per una vita intera.
NOMEN OMEN.
Amerigo, così mi sembra, poi scopro che è Americo, comunque sia la sillaba finale, questo nome mi richiama alla mente Amerigo Vespucci, le sue imprese di grande esploratore oltre Oceano, il nome America del continente con cui spesso la nostra cultura ha relazione di odio-amore.
Il nostro Americo non esplora nuove terre, ma frequenta sempre le stesse da quando aveva 12 anni e saliva tra questi monti a imparare il mestiere di pastore. I monti della Duchessa, come molti altri, in Italia e in Europa, sono luoghi di Altrove per arrivare alle cui cime si supera un confine invisibile tra terra degli uomini e terra degli dei. Gli antichi di tutto il mondo ponevano le divinità in cima ai monti che rendevano sacri, quindi, inaccessibili agli uomini e separati dal mondo umano. Quando anche noi ci affacciamo a questa dimensione, serbiamo memoria dei nostri avi e della loro netta separazione che sempre comportava un’ascesa agli dei, una discesa agli uomini.
Il mondo di Americo è questo: vicino in termini di Km a villaggi e piccoli centri, distante in termini di esperienza di vita, immerso tra cime, alberi, nuvole, cielo, rocce, tutti di una bellezza sconcertante.
Pastore, ecco il suo cognome, quello vero è stato assorbito dalla sua professione che da sempre forgia il corpo e lo spirito di questo uomo. Al momento pastore di 400 pecore che lascia libere di giorno intorno al lago e ritira di notte nel recinto. I suoi colleghi migliori sono i cani, grandi aiutanti dell’operato umano, un po’ un anello di congiunzione tra il nostro mondo e quello degli animali. Rispettati dalle bestie selvatiche del luogo, non sono mai stati feriti dai lupi che di qui passano e sostano la sera. Minacciati, però, e uccisi dagli uomini che ne hanno avvelenati 8 quest’anno, il giorno stesso in cui Americo si è trasferito dal fondovalle alla malga. Uccisi da mano umana, tra mille sofferenze, sepolti in questa terra di montagna dal loro padrone che nella stessa terra dichiara di voler essere sepolto. Lui ha lacrime agli occhi quando parla dei suoi cani: intelligenti, obbedienti, rispettosi degli agnelli e delle pecore. Caratteristiche, queste, che ormai sono rare negli uomini, inesistenti in chi li ha avvelenati per minacciare il loro padrone. La loro morte è stata usata come un linguaggio in codice per sfiancare e indebolire la resistenza di Americo quassù. Che qui non affronta la severità della natura, le sue leggi rigorose e ancestrali che porta stampate nel cuore e che cerca di trasmettere al nipote Vittoriano. Resiste con coraggio a ben altra durezza: quella dell’uomo che spande fin quassù la sua disonestà, la sua ruberia, i suoi giochetti sporchi di potere in una terra che non gli appartiene, ma che vuole piegare alla sua sete di potere malsana e distruttiva.
HOMO HOMINI LUPUS.
E’questa razza di lupo che Americo combatte restando al suo posto, pagando le tasse, dichiarando al comune il numero delle bestie al pascolo, non cedendo alle sopraffazioni. Ad altri invece non interessa che le loro bestie insozzino l’acqua del lago con i loro umori, la rendano palude melmosa destinata a sparire. Gli orizzonti di ragionamento di questi uomini sono miopi, delimitati da interessi contingenti e banali. Gli interessi di Americo spaziano oltre la sua generazione, cuciono il patrimonio della generazione che l’ha preceduto con quella che seguirà. Perché anche i nipoti possano godere di questa bellezza, completa, appagante degli occhi, della mente, del cuore, dello spirito che non lascia mai solo chi solo passa anche per qualche ora in questo luogo. La solitudine dei monti offre pienezza a differenza di quella di città che depreda, spolpa, spoglia anima e corpo senza pudore.
Americo ci esorta ad entrare nel suo recinto e, a dispetto dei teschi di vacche che stanno appesi al cancello che potrebbero sembrare respingenti, il pastore è di rara ospitalità. Dapprima prepara il caffè, poi ci invita a pranzo per pasta e ricotta, impossibile rifiutare tale invito. Entrare nel suo recinto significa essere ospiti non solo del suo spazio, ma anche della sua storia di quotidiano eroismo in solitaria. Racconta del suo lavoro con schiettezza, senza sbavature; le ingiustizie contro cui lotta narrate qui tra le cime suscitano maggior sdegno che se fossero narrate in città, eppure hanno gli stessi ingredienti di invidia, di guadagno, di avidità. Ma se vengono presentati in città, siamo sempre meno inclini a indignarci e sempre più portati a trovare una zona grigia di compromesso, qui l’indignazione sana ha ancora il coraggio di sgorgare fuori. Forse ha la sua naturale sorgente nell’illusione che le cime possano ancora essere luoghi integri, preservati dall’invasione umana. Le nostre parole di stupore e di rammarico segnano la caduta di un sogno, di un desiderio, di una speranza, siamo di fronte alla miseria del genere umano che contagia ciò che tocca. Resistere è la parola d’ordine di Americo, resistere alla dis-umanità che ha già mietuto molte vittime e che serpeggia ormai come possibile scorciatoia negli animi di tutti noi.
Organizziamo negli animi una rete di resistenza che supera ogni confine geografico, anagrafico, storico e rimaniamo vigili sul valore profondo di umanità. Ci salutiamo con un abbraccio che stampa l’impronta del suo corpo, quasi un marchio, nel corpo di ciascuno di noi, un’orma di monito al nostro cammino di vigilanza reciproca. Una lacrima nascosta sfugge, un segnale che qualcosa nel cuore sa ancora smuoversi e animarsi di nuova vita.
Resistono anche Costanza, Antonietta, Lucia di Rosciolo. Fanno dell’incontro la loro personale, e oserei dire, femminile, arte di resistere al tempo che come un fiume lava via storie, esperienze, vicende di questo borgo. Un muretto, qualche sedia sulla via e il salotto per la chiacchiera è allestito, attorno la cima del Velino incoronato dalle nuvole, aria fresca e frizzante, profumi dei campi. Le parole escono leggere, saltellano da una persona all’altra, mai la pesantezza della nostalgia le rende pesanti, l’imprevisto di questo ritrovo rende anche i contenuti più penosi venati di respiro leggero, cosa che raramente capita quando si chiacchiera in casa, le parole rimbalzano sulle pareti e ricadono tramortite davanti a noi. La piccola comunità di chiacchiere cresce, a noi si aggiunge un numero sempre crescente di gatti, anche loro impegnati in effusioni di compagnia.
La parola di Antonietta, Lucia, a cui si aggiunge la cugina Maria diventa canto di sera, davanti al bar del paese sotto lo sguardo sorpreso dei giovani che si chiedono cosa sia successo a queste donne. Il canto come la danza tocca l’essenza dell’uomo, attraversa barriere del tempo e della geografia e opera per l’inclusione-parola ormai di moda di cui pochi sanno il vero significato- di italiani con italiani. Vestite a festa, truccate, queste signore si sentono onorate dal pubblico improvvisato di 14 camminatori, invitano la cugina Maria che porta anche un libretto di canti, dapprima nascosto in borsa, poi estratto per scegliere dall’indice il testo da cantare. Canti a lungo taciuti riprendono la via della voce che esce fragorosa e vivace, la memoria gioca ad accendersi e a spegnersi, salvata sempre dai testi scritti del libretto. L’esordio è con una canzone locale dal titolo “Le ragazze di Rosciolo”, che per noi diventa poi sottofondo di ore di cammino nei giorni successivi. Seguono canti di montagna, canti legati al Piemonte, a Firenze, agli Alpini, un repertorio che sale e scende lungo la colonna vertebrale dell’Italia. Tutti scopriamo di appartenere un poco a ogni canzone, indipendentemente dal cammino di vita. I testi contengono pezzi di puzzle della nostra italianità, così complessa e sfuggente, se lasciata ai discorsi dei politici, così essenziale e nitida, se affidata a questi incontri.
Parole di spiritualità propone, invece, Costanza. 90 anni, molti dei quali passati a essere la perpetua di questo paese, impegnata ad accompagnare intere generazioni ai sacramenti che segnano tappe della formazione di ogni giovane. La sua religiosità supera l’appartenenza a una religione e diventa comunicazione di spiritualità, un’altra esigenza primaria dell’uomo che spesso la vita in città tende a spazzare via, ma che la vita della natura restituisce. Esigenza che risorge nel cammino, lungo la fila di passi che tracciamo con cura, gli stessi che questi vecchini compiono ogni giorno su e giù dal paese sotto lo sguardo del Velino che fa ascendere all’alto non solo gli occhi, ma anche l’anima.
Tutti fanno la stessa raccomandazione: “Parlate del nostro paese! Mandate la gente!”. Scrivere di loro aiuta a onorare l’incontro, ad avvertirlo ancora di più come un gran privilegio da custodire e serbare nel cammino della vita.
“Andiamo, va!”, così la nostra guida ci indica la strada quando siamo a un bivio e attendiamo le sue indicazioni. L’augurio è che ognuno dica a sé la stessa frase quando riprende, tornato a casa, la sua via di sempre che non è più la stessa di quella che ha lasciato, da nutrire e alimentare con i nuovi passi del viaggio.
Lucia Giroletti, luglio 2019
Firmate la petizione Io sto con Americo e con il lago della Duchessa